La promozione della vaccinazione anti Covid-19 per il bambino

Comunicare comincia con ascoltare, e non significa convincere. Se il terreno non viene arato dall’ascolto e mondato dalle false credenze, difficilmente potrà accogliere e far germogliare il seme che ci vogliamo gettare.

Roberta Villa

Giornalista scientifica




Dopo due anni di pandemia, molti medici non sono meno esasperati dei cittadini. Non hanno più la pazienza di spiegare l’importanza della vaccinazione e i veri rischi legati a un’infezione che, soprattutto nei più piccoli, sembra banale. In televisione, sui giornali, alla radio, da due anni non si sente parlare d’altro. Che altro può ancora fare il pediatra?

Il rischio di sottovalutare il ruolo che si può avere nell’aiutare le famiglie a fare le scelte migliori anche in questo campo perciò è alto. Il tempo da dedicare alla comunicazione ai genitori su questo tema, in mezzo a tanti altri argomenti che sembrano più importanti, può essere invece troppo poco.

All’inizio dell’estate 2022, poco più di un terzo dei bambini italiani tra i 5 e gli 11 anni ha completato il ciclo vaccinale.1 Se la campagna vaccinale antipandemica in Italia si può considerare un grande successo, con coperture tra le più alte al mondo, non altrettanto bene si può dire che abbia funzionato sui più piccoli. O meglio, sui genitori che decidono per loro.

La discordanza tra i due dati ci dice che molti hanno accettato, o voluto, l’iniezione per sé, ma non per i propri figli. Qualcuno è stato costretto dalle norme sul green pass e dall’obbligo, ed è comprensibile che in questo caso non abbia voluto sottoporre i piccoli di casa a una procedura di cui non era convinto. Ma la maggior parte degli italiani si è vaccinata di buon grado, come dimostra il fatto che la risposta della popolazione era già molto positiva prima dell’introduzione dei vincoli sopra citati. Perché allora tanti non hanno voluto garantire la stessa protezione ai loro bambini, quando, alla fine del 2021, è stata finalmente autorizzata e resa disponibile per i più piccoli la formulazione a dosaggio ridotto dello stesso vaccino a mRNA Comirnaty, già somministrato a centinaia di migliaia di adolescenti, adulti e anziani in tutto il mondo?

Cominciamo col dire che il momento in cui è arrivata l’attesa formulazione pediatrica non è stato particolarmente fortunato. Proprio in quei giorni si segnalava infatti in Sud Africa, e prendeva piede nel resto del mondo, una nuova variante di SARS-CoV-2, detta poi omicron, nettamente più contagiosa di tutte le varianti precedenti, ma meno aggressiva, almeno rispetto alla delta che in quel momento riempiva gli ospedali. Tutte le società occidentali cominciavano a mordere il freno nei confronti di restrizioni che minacciavano in maniera seria l’economia. C’era bisogno di messaggi positivi, tutti volevano mettersi l’emergenza alle spalle, e la nuova variante rischiava di compromettere un percorso di “uscita dalla pandemia” più volte preannunciato. Il fatto che, in una popolazione largamente immune e a confronto con la recente delta, sembrasse provocare meno ricoveri e decessi, fece il resto.

La volontà di rassicurare prevalse sulla trasmissione di informazioni corrette. Si cominciò a dire che omicron provocava nella maggior parte delle persone colpite soltanto un raffreddore, e che anzi poteva essere provvidenziale perché la sua elevata capacità di diffusione, accompagnata a una scarsa gravità, avrebbe di fatto costituito una sorta di vaccinazione globale in grado di proteggere da varianti successive, magari più virulente. E qualcuno si allargò a sostenere che proprio l’infezione di massa dei bambini poteva portarci verso una qualche forma di immunità di gruppo che avrebbe permesso l’endemizzazione di Covid-19, intendendo erroneamente per endemizzazione una circolazione sostanzialmente innocua, o con cui si poteva convivere come da secoli si fa con l’influenza.

L’altissima contagiosità della variante omicron, complici saggi, feste e cene di Natale e Capodanno rimandate da quasi due anni, dilagò in quei giorni con una rapidità e un’entità impressionanti, soprattutto nella popolazione più suscettibile, quella dei bambini, per lo più non ancora vaccinati. Una delle caratteristiche che rende meno grave di delta la variante omicron, cioè il fatto di colpire soprattutto le alte vie aeree e provocare quindi meno polmoniti da Covid-19 negli adulti, ne aumentava i rischi per i più piccini, in cui causava più facilmente croup. La febbre e i disturbi gastroenterici, poi, favorivano la disidratazione, determinando, a cavallo tra 2021 e 2022, un’impennata dei ricoveri per Covid-19 mai vista prima nei reparti pediatrici.

Molti genitori che avrebbero voluto vaccinare i loro figli furono quindi anticipati dalla rapidità del virus. Il fatto che proprio in quelle settimane venisse autorizzata la formulazione pediatrica del vaccino Comirnaty per i bambini da 5 a 11 anni destò invece qualche sospetto nei più scettici: forse la segnalazione di tutti questi bambini in ospedale serviva a spingere gli adulti a vaccinarli? Era forse una narrazione strumentale, finalizzata agli interessi dell’azienda produttrice e a risultati che il governo potesse vantare come suoi? La scarsa fiducia nelle istituzioni che sempre più serpeggia nella nostra società non faceva che continuare ad alimentare teorie del complotto.

Ma a parte chi si affida a queste narrazioni, che comunque rappresenta una minoranza, perché tanti genitori che in larga parte si sono vaccinati, forse si sono preoccupati di accompagnare i genitori anziani, spesso hanno protetto gli adolescenti, si sono fermati quando si è trattato di prendere l’appuntamento per i più piccoli? Probabilmente, per il combinato disposto della maggiore percezione del rischio che istintivamente tutti sentiamo a tutela delle vite più giovani e vulnerabili, così come accade per le donne in gravidanza, e la diffusa convinzione che i bambini non corrano rischi nel caso in cui si infettino.

Secondo il modello messo a punto dal SAGE (Strategic Advisory Group of Experts) dell’OMS sull’attitudine dei genitori alla vaccinazione, questa infatti dipende da tanti fattori, i cosiddetti “determinanti vaccinali”, che declinano sotto molte variabili le cosiddette 3 C dell’esitazione vaccinale: in inglese convenience, confidence e complacency, cioè disponibilità (e facilità di accesso ai vaccini), fiducia (in chi li propone) e noncuranza (verso i rischi posti dalla malattia che possono prevenire).2

In Italia, la disponibilità, nel momento in cui si trattava di vaccinare i bambini, era massima. I centri vaccinali erano largamente rodati dalla campagna sugli adulti, e molti hanno attrezzato reparti apposta dedicati ai bambini. La vaccinazione era gratuita. L’accesso non presentava particolari ostacoli.

Lo scarso successo della vaccinazione pediatrica contro Covid-19 nei Paesi ad alto reddito come il nostro si basa quindi soprattutto sulle altre due componenti indicate dagli esperti dell’OMS. La complacency, cioè la sottovalutazione della malattia, è inevitabile quando questa è continuamente descritta come banale, soprattutto nei più piccoli. Alle scarne segnalazioni di numeri su ricoveri e decessi si affianca infatti il racconto quotidiano di esperienze tranquillizzanti. Sottovalutarla è facile, con un virus che nella stragrande maggioranza dei casi passa inosservato o si manifesta con sintomi banali, ma in una piccola, imprevedibile, quota, può essere addirittura letale.

Soprattutto nella prima ondata, i piccoli sono quelli che sono stati tenuti più isolati: le scuole hanno chiuso subito, e non sono loro a fare la spesa o svolgere attività essenziali. Questo ha fatto ipotizzare che fossero in qualche modo naturalmente “immuni” all’infezione. Nella comunità scientifica, la consapevolezza dei rischi che anche loro corrono è arrivata lentamente, nel corso dei mesi, mentre i genitori erano al contrario martellati da una campagna di comunicazione basata sull’idea che le scuole fossero a priori “sicure”, sebbene siano uno dei luoghi dove il distanziamento fisico è più difficile e l’assembramento più prolungato nel tempo.

La nostra mente crede con maggiore facilità a ciò a cui vogliamo credere, tanto più se proviene da fonti che si ritengono autorevoli.3 Non c’è dubbio che i bambini soffrissero nella didattica a distanza, che il loro apprendimento ne risentisse, che le diseguaglianze si accentuassero e che con i figli a casa molti genitori fossero in oggettiva difficoltà a mantenere il lavoro, in un momento già difficile dal punto di vista economico: come non aderire alle rassicurazioni sull’impossibilità di contagiarsi a scuola, nonostante l’assenza di misure che rendessero davvero le strutture più adeguate, per esempio in termini di spazi e ventilazione?

Un elemento fondamentale dell’adesione alle campagne vaccinali è la fiducia nelle istituzioni.4 Nel momento in cui le istituzioni stesse, tra ministri, viceministri, sottosegretari, portavoce vari, per non parlare di medici e scienziati, presentano mille diverse versioni dei fatti, non c’è nemmeno bisogno di invocare la sfiducia nelle autorità e nei pareri esperti: basta scegliere la narrazione che meglio si confà ai propri valori, bisogni, pregiudizi, e ci si può sentire legittimati e rinforzati di qualunque opinione. I cittadini quindi pagano la comunicazione contraddittoria che hanno ricevuto, spacciata sempre per scientifica, guidata troppo spesso da interessi partitici, economici, o di visibilità personale.

Occorre anche tenere conto del fatto che in questo caso specifico la paura nei confronti della vaccinazione anti Covid-19 era accentuata, rispetto a quella contro altre malattie dell’infanzia, dalla novità delle opzioni in gioco: da una parte il vaccino, non solo nuovo, ma prodotto con tecniche innovative; dall’altro la malattia, di cui ancora si sa poco. Un virus nuovo, di cui non conosciamo ancora fino in fondo le caratteristiche, e un vaccino non solo recente, ma anche innovativo nella sua concezione. Dalla somma di elementi sconosciuti e poco noti, dalla complessità del tema e dalla confusa comunicazione che se ne è fatta sui media, non può che derivare una grande incertezza. E il nostro cervello è fatto così: nel dubbio, si astiene. Se deve scegliere tra correre un rischio per azione o per omissione preferisce non rendersi responsabile di provocare attivamente un danno. Tanto più quando in gioco c’è la vita di un bambino o di una bambina, figuriamoci se figlia o figlio proprio.

I media, da parte loro, hanno contribuito all’atteggiamento dei genitori, accentuando i rari casi di reazioni indesiderate da vaccini e tacendo invece sui casi di sindrome infiammatoria multisistemica (MIS-C) e long Covid pediatrico che, secondo le stime più attendibili, si manifesta con almeno un sintomo, soprattutto una inspiegabile stanchezza, in circa l’1-2% dei contagiati in età pediatrica ancora dopo tre mesi dall’infezione. Pochi, in percentuale, ma tanti, se si considerano i valori assoluti dei piccoli che vengono a contatto con il virus.

Ma se la malattia è sottovalutata, è soprattutto il vaccino che faceva e fa paura. Non è stata adeguatamente comunicata al grande pubblico la sproporzione tra i rarissimi casi di complicanze da vaccino, come le lievi miocarditi e pericarditi riportate negli adolescenti maschi, e quelle conseguenti alla malattia, molto più frequenti e gravi. I Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie di Atlanta hanno recentemente comunicato che nei maschietti tra 5 e 11 anni le segnalazioni di miocarditi al sistema VAERS sono ancora di meno che tra i teenager, tanto che si discostano di poco dalla media riscontrata nella popolazione generale. Dal database VSD, poi, non risulta alcun segnale.

Ma in generale la nostra mente non è abile a gestire le questioni legate al calcolo delle probabilità; la scuola italiana poi non insegna a distinguere un pericolo da un rischio, e a saper valutare quest’ultimo in termini oggettivi.

Quando parliamo con i genitori non possiamo ignorare tutto questo. Una delle prime regole della comunicazione ci impone infatti di avere ben chiaro il “target”, come si dice in gergo, o meglio il “ricevente” del nostro messaggio. Non possiamo usare lo stesso linguaggio con un collega di cui seguiamo dalla nascita i figli piccoli e con un genitore appena migrato in Italia, che ci si presenta in studio per la prima volta, non ha studiato e parla poco l’italiano. Ma non è solo una questione di linguaggio verbale. Anche davanti a famiglie molto colte si può creare una barriera. Anzi, molti studi compiuti negli anni precedenti alla pandemia avevano osservato una maggiore incidenza di esitazione vaccinale nella popolazione di maggior livello socioeconomico e soprattutto culturale.

Per farsi capire occorre prima di tutto capire le ragioni di chi abbiamo davanti. Il che presuppone un ascolto attento, aperto, non giudicante. Non solo a parole, ma che trasmette accoglienza anche tramite il linguaggio non verbale, con la posizione delle mani e del corpo, gli occhi e il sorriso. È difficile credere che una persona convinta che i vaccini rappresentino un gravissimo pericolo per proprio figlio possa cambiare idea dopo essere stata attaccata e appellata con disprezzo come “antivax”. È più facile che cambi pediatra.

Per evitare di assumere toni controproducenti è indispensabile quindi avere ben chiaro il quadro generale in cui i genitori si trovano a dover fare una scelta, dopo aver sentito in televisione addirittura primari di prestigiosi istituti pediatrici affermare che ai piccoli la vaccinazione non serve. Dobbiamo capire profondamente i loro timori, le loro perplessità, l’ambito di incertezza in cui si muovono, ben prima di provare a lanciare un messaggio. Se il terreno non viene arato dall’ascolto e mondato dalle false credenze, difficilmente potrà accogliere e far germogliare il seme che ci vogliamo gettare.

Nel rispondere ai dubbi e alle paure non bisognerebbe mai liquidare le posizioni dell’altro come irrilevanti o sciocche, ma cercare di fornire i dati derivati dal consenso scientifico senza entrare in dettagli tecnici, ma con chiarezza, onestà e trasparenza.

Soprattutto occorre avere ben chiaro in mente quali sono i propri obiettivi. Se pensiamo di avere il dovere (o meglio, anche solo il diritto) di provare a “convincerli”, forse faremmo meglio a fermarci e riflettere. Nessun adulto accetta di buon grado che un altro si accosti a lei o a lui con l’esplicita intenzione di fargli o farle cambiare idea, tanto più quanto questa si è consolidata.

Le nostre idee fanno infatti parte di noi stessi e contribuiscono a creare la nostra identità. Soprattutto se riguardano ciò che per un genitore vale di più, cioè la salute del proprio bambino, è difficile scalfirle, così come, per fortuna, è difficile convertire in antivax un genitore convinto che i rischi delle vaccinazioni siano quasi irrilevanti rispetto a quelli delle malattie che impediscono.

Non dobbiamo mai dimenticare che, a parte casi estremi e oserei dire quasi patologici, il primo obiettivo di un genitore è salvaguardare la salute del proprio bambino. Chi finora ha esitato a vaccinarlo o vaccinarla non lo ha fatto quasi mai per menefreghismo, ma piuttosto per indecisione, nel timore di procurare un danno maggiore di quello da cui lo si vuole proteggere.

È solo capendo questo che ci si può approcciare ai genitori nel modo migliore. Senza paternalismo, senza saccenza o atteggiamenti di superiorità intellettuale.

Nell’editoriale con cui ho presentato i miei obiettivi nell’assumere la direzione di Uppa, un’iniziativa di comunicazione alle famiglie indipendente e priva di pubblicità, mi ero concentrata sul concetto di empowerment, una parola che purtroppo è difficile tradurre in italiano. Nel portare contenuti scientificamente solidi ai genitori e a tutti coloro che si relazionano ai bambini non intendiamo convincerli a seguire una linea piuttosto che un’altra, ma solo fornire loro gli strumenti per compiere scelte informate e consapevoli. Un approccio che a mio parere dovrebbe caratterizzare tutta la comunicazione della salute, anche da parte dei medici nei confronti dei loro pazienti. .

Bibliografia

1. https://www.governo.it/it/cscovid19/report-vaccini/

2. Schuster M, Duclos P (eds). WHO Recommendations Regarding Vaccine Hesitancy. Vaccine 2015; 33, 4155-4218.

3. Kahneman D. Pensieri lenti, pensieri veloci. Milano: Mondadori, 2012.

4. WHO. Vaccination and trust. How concerns arise and the role of communication in mitigating crises. 14 March 2017 https://www.who.int/publications/i/item/vaccination-and-trust