L’adolescente che si taglia. Le condotte
autolesive non suicidarie in adolescenza

Il pediatra ancora una volta ha un osservatorio privilegiato per intercettare gli adolescenti
che mettono in atto condotte autolesive e che quindi sono ad alto rischio di outcome negativi.

Bisogna cioè riuscir a capire perché,

in situazione di grande sofferenza,

si ricorre al corpo come ultima risorsa

per non scomparire.

David Le Breton1

Chiara Davico

SC Neuropsichiatria Infantile U

Ospedale Infantile Regina Margherita

Università degli Studi di Torino

Introduzione

Le condotte autolesive non suicidarie sonoun problema comune in adolescenza: l’età di esordio varia infatti tra i 12 e i 14 anni. Tali condotte destano lecita preoccupazione in chi si occupa di adolescenti (professionisti della salute mentale, operatori sanitari, insegnanti, educatori) che si trovano a fronteggiare un fenomeno sempre più diffuso, come confermato recentemente dalla letteratura internazionale: negli Stati Uniti tra il 2009 e il 2015 è stato rilevato un aumento annuo del tasso di accesso in pronto soccorso per condotte autolesive non suicidarie nelle ragazze tra i 10 e i 24 anni del 18,8%2, dato confermato anche in altri contesti geografici, come ad esempio Australia e Inghilterra.

Definizioni

Con “autolesività non suicidaria” si intendono “atti dalle conseguenze non fatali intesi a procurare lesioni senza una precisa intenzione suicida”, secondo la definizione di Nock del 20095, con esclusione delle condotte socialmente accettate (tatoo, piercing o rituali religiosi) e le condotte autolesive indirette (disturbi alimentari, abuso di sostanze, comportamenti suicidari, comportamenti a rischio).

È noto che i ragazzi che mettono in atto condotte autolesive non suicidarie sono maggiormente a rischio di outcome negativi, compreso il suicidio. La comparsa di queste condotte è influenzata da una serie di fattori, tra cui il contagio sociale, le difficoltà interpersonali, il background neurobiologico, la disregolazione emotiva e le esperienze avverse nell’infanzia.

Sino al 2013, anno di pubblicazione della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5), le condotte autolesive venivano citate nel manuale di riferimento per la comunità scientifica internazionale (DSM IV) solo come criterio per il disturbo borderline di personalità. Con la pubblicazione del DSM 53 sono quindi comparse nella categoria “condizioni che meritano di ulteriori approfondimenti” le condotte autolesive non suicidarie (non suicidal self injury, NSSI in lingua inglese), in quanto sembrava potessero essere soddisfatti i criteri di prevalenza (fenomeno sufficientemente diffuso), impairment e autonomia clinica, sia per quanto riguarda la presentazione clinica che il suo decorso.

I criteri dell’“autolesività non suicidaria” secondo il DSM 5 sono riportati nella tabella 1.

La validazione delle NSSI come proposto dal DSM 5 è tuttavia ancora in corso, con studi a favore e studi contrari, e un dibattito acceso nella comunità scientifica internazionale. Alcuni ricercatori supportano la validità di tale diagnosi in quanto le condotte autolesive possono portare ad una importante compromissione del funzionamento in assenza di una comorbilità psichiatrica, potendo infatti presentarsi in assenza di diagnosi di disturbo borderline di personalità. L’autonomia clinica di questa entità nosografica può inoltre sostenere lo sviluppo di terapie specifiche. Altri ricercatori tuttavia criticano la dicotomia tra comportamenti suicidari e non suicidari, ritenendo infatti che tali condotte si situino spesso lungo un continuum, con il rischio peraltro che una concettualizzazione dicotomica possa sostenere una sottostima del rischio suicidario.




Epidemiologia

La prevalenza delle condotte autolesive è complicata da stimare: il comportamento autolesivo non è facilmente rilevabile, in quanto fa ricorso all’attenzione medica solo una ristretta minoranza di soggetti; inoltre è importante distinguere la prevalenza del fenomeno nella popolazione generale (campioni comunitari) e la sua prevalenza in contesti clinici (pazienti ambulatoriali, pazienti ricoverati in strutture).

Tra gli adolescenti il tasso di prevalenza lifetime è del 17-18% per almeno un singolo episodio di condotta autolesiva non suicidaria4.

Il tasso di adolescenti che soddisfano i criteri proposti dal DSM 5 è ovviamente più basso, tra 1,5% e 6,7% in contesti comunitari.

In Italia la prevalenza in campioni comunitari di adolescenti (considerando uno/due episodi nella vita) va dal 15 al 452% a seconda degli studi.

Considerando i contesti clinici il tasso è nettamente maggiore, circa 60% per un episodio lifetime di autolesività non suicidaria e circa 50% secondo la definizione sindromica proposta dal DSM 5.

Il sesso femminile risulta essere un fattore di rischio e in particolare sembra che vi sia una prevalenza di sesso femminile sia nelle ragazze adolescenti sia nelle giovani adulte; tale sbilanciamento è più significativo quando vengono considerati campioni clinici e le popolazioni più giovani. Vi sono inoltre anche differenze riguardanti le modalità utilizzate nei due sessi: che le femmine utilizzano maggiormente il cutting, mentre i maschi più facilmente l’autocolpirsi o bruciarsi.

Sembra inoltre esserci un’associazione tra orientamento sessuale non eterosessuale e NSSI.

Sia negli studi su campioni comunitari che in quelli condotti su campioni clinici le condotte autolesive hanno esordio in adolescenza, più facilmente in un’età compresa tra i 12 e i 14 anni5, probabilmente per la fisiologica maggiore impulsività e reattività emotiva che caratterizza questa fase evolutiva.

Prognosi

Le NSSI possono presentarsi sia nel contesto più ampio di una patologia psichiatrica, in particolare disturbo borderline di personalità, disturbi della sfera affettiva (depressione, disturbo bipolare), disturbo post traumatico da stress (con particolare attenzione alla storia di abuso sessuale), disturbi d’ansia, disturbo da dipendenza da sostanze e disturbi del comportamento alimentare, sia in assenza di una diagnosi psichiatrica. Si può trattare infatti di un fenomeno transitorio che scompare poi in età adulta. Sembra tuttavia esserci una associazione tra l’età di esordio precoce e la possibilità di sviluppare un disturbo borderline di personalità più avanti nella vita.

Sebbene le NSSI e i comportamenti suicidari siano due entità distinte, spesso si possono presentare in momenti diversi nello stesso soggetto: anche se il ragazzo che mette in atto comportamenti autolesivi non lo fa con intenzione di togliersi la vita, quello stesso ragazzo può presentare anche ideazione suicidaria. Coloro che mettono in atto NSSI presentano un rischio più elevato di avere ideazione suicidaria e di effettuare veri e propri tentativi di suicidio (hazard ratio 2.00)6, in relazione alla durata e alla frequenza delle condotte autolesive (più alta la frequenza, più prolungata nel tempo, più elevato il rischio di effettuare un tentativo di suicidio).

Presentazione clinica

Nella tabella 2 vengono riportate le più comuni forme di NSSI. I comportamenti più frequenti sono i tagli, seguiti dalle bruciature, dalle lesioni da grattamento e dal colpirsi.

Le aree lese dai tagli normalmente comprendono l’area frontale delle cosce e il lato dorsale dell’avambraccio; una singola sessione di atti lesivi comporta una serie di tagli superficiali paralleli, separati da 1 o 2 cm, in un punto del corpo visibile o accessibile, al tempo stesso, più facilmente occultabile, per poter mantenere intatta la segretezza di tali condotte.

I tagli che ne conseguono spesso sanguinano e possono infine lasciare un caratteristico gruppo di cicatrici. Quando le lesioni invece vengono effettuate su parti del corpo scoperte oppure coinvolgono i genitali, il volto o il seno nelle donne, sono da considerarsi eventi molto più gravi7, e sono associati con un rischio di suicidio molto più alto.




Gli eventi procedono spesso secondo questa sequenza:

· desiderio impulsivo di tagliarsi, accompagnato da un sentimento cui è impossibile resistere;

· convinzione di trovarsi in un’empasse relazionale, senza alternative o possibilità di controllo;

· sentimento crescente di malessere (angoscia, tristezza, sentimento di solitudine o di crescente abbandono, collera, rabbia). Molto più raramente, soprattutto in adolescenza, sentimento di obnubilazione o di depersonalizzazione;

· passaggio all’atto che determina una sensazione di sollievo, la cui durata è variabile da soggetto a soggetto, ore, giorni settimane, rievocata dalla visione dei tagli o delle ferite o delle cicatrici. Il sollievo è qualche volta accompagnato da una sensazione di leggera euforia o di fierezza.

Alcuni soggetti sostengono di non provare alcun dolore nel momento dell’agito, altri sostengono che il dolore fisico, che viene pure percepito, è di sollievo dal dolore interno.

Questi agiti sono effettuati nella maggior parte dei casi in solitudine, tuttavia spesso nel contesto ospedaliero gli adolescenti si incoraggiano l’un l’altro nel passaggio all’atto, scambiandosi consigli e suggerimenti.

I benefici secondari di tali condotte riguardano tutto l’entourage dell’adolescente: genitori, amici, adulti di riferimento e, se in un contesto di ricovero, altri pazienti e l’equipe curante stessa. Si ottiene in questo modo l’interesse e la mobilitazione altrui senza necessità di domandare aiuto con le parole.

Spesso, a seguire, il corpo tagliato viene reso oggetto di un esibizionismo particolare: si tratta di mostrare allo stesso tempo la sofferenza e il suo controllo, lascia intendere il carattere volontario dell’agito, il pieno controllo, l’atteggiamento verso di sé, e la fondamentale contraddizione di attacco verso l’altro, in particolare verso l’adulto: “se non reagite è un abbandono, se reagite nessuno ve l’ha chiesto e il vostro intervento è una intrusione inammissibile”7.

Fattori di rischio

I fattori di rischio si possono distinguere, secondo il modello biopsicosociale, in: associati all’ambiente famigliare, sociale e al rapporto con i pari, alla storia personale, alle caratteristiche proprie del soggetto.

· Ambiente famigliare: in particolare uno stile relazionale famigliare caratterizzato da mancanza di sostegno affettivo, repressione dell’espressione dell’aggressività e della collera che favoriscono il ripiego contro di sé7; qualità povera della relazione nella coppia genitoriale; presenza di stati di disagio mentale o franca patologia psichiatrica in uno dei genitori; relazioni di tipo conflittuale o non supportivo tra genitore e figlio (genitori ostili, poco disponibili al dialogo o poco comprensivi); legami di attaccamento insicuro e condizioni socioeconomiche svantaggiose o deprivate culturalmente.

· Rapporto con i pari e ambiente sociale: isolamento sociale o appartenenza a sottoculture giovanili che valorizzano i comportamenti autolesivi (importante il ruolo dei comportamenti imitativi); storia personale di bullismo; assenza di reti supportive (sociali, famigliari, amicali, religiose).

· Storia personale di abuso fisico, emotivo o sessuale, maltrattamento o trascuratezza.

· Fattori personali: sesso femminile, interessi sessuali non eterosessuali, bassa stima di sé, rapporti sessuali precoci, pregressi tentativi di suicidio, storia pregressa di condotte autolesive, impulsività, mancanza di speranza e prospettive future, insoddisfazione rispetto al proprio corpo, bassa autostima, presenza di un disturbo d’ansia, giovane età e presenza di disregolazione emotiva.




Funzioni e significato delle condotte autolesive

Da un punto di vista empirico numerosi studi hanno cercato di comprendere le motivazioni legate alla messa in atto di condotte autolesive. Va tuttavia posta una premessa metodologica: si tratta perlopiù di informazioni raccolte ponendo delle domande, per iscritto o tramite interviste verbali, e difficilmente è possibile ritenere del tutto ragionevole che la prima risposta a questa domanda indichi in modo inequivocabile la causa, la motivazione del comportamento autolesivo. Se s’ipotizza che si ricorra ad agiti autolesivi per un fallimento nella mentalizzazione (dove per mentalizzazione si intende la capacità di mettere in parole le proprie emozioni e i propri pensieri), secondo quanto descritto da Fonagy8, risulta difficile fare affidamento ad una prima risposta a questa domanda data proprio da chi ha difficoltà a pensare e ad esprimere le proprie emozioni.

Tuttavia il modello più accettato a livello internazionale concettualizza le condotte autolesive come una strategia di regolazione emotiva, ossia una modalità di coping disfunzionale, un tentativo maladattivo di gestione delle proprie emozioni negative.

Le condotte autolesive asservono ad una funzione di rinforzo intrapersonale negativo (distraggono da pensieri o emozioni negative), intrapersonale positivo (inducono sensazioni o emozioni positive), interpersonale positivo (facilitano la richiesta e la ricerca di un aiuto) e interpersonale negativo (facilitano lo sfuggire da situazioni sociali indesiderate, o di difficile gestione)9.

Vi sono alcune ipotesi che cercano di spiegare perché alcuni adolescenti scelgano proprio le condotte autolesive piuttosto che altre modalità di gestione delle emozioni negative. Tra le molte ipotesi citiamo:

· apprendimento sociale. La decisione di mettere in atto comportamenti autolesivi è indubbiamente legata all’osservazione del comportamento altrui (amici, famigliari, media);

· autopunizione: l’autopunizione come NSSI può diventare una modalità di abuso autodiretto appreso attraverso l’abuso reiterato dagli altri;

· comunicazione sociale. I comportamenti “costosi” sono ritenuti maggiormente credibili (ossia sono segnali “onesti”) perché altrimenti non verrebbero messi in atto. Comportamenti ad alto costo più facilmente suscitano una risposta e una reazione rispetto a comportamenti meno “costosi” (ad esempio, la comunicazione verbale);

· elementi concreti. I comportamenti autolesivi sono a basso costo economico e facilmente accessibili, rispetto ad esempio a comportamenti che possono asservire a funzione simile, come l’abuso di sostanze o l’esercizio fisico.

Da un punto di vista psicodinamico è noto che durante il periodo adolescenziale la tendenza ad agire può rappresentare una modalità della mente per elaborare una realtà interna ricca di continui cambiamenti. Tali condotte possono raffigurare, da una parte, l’espressione di una potenziale messa alla prova della costruzione dell’identità e, dall’altra, una manifestazione di profonda vulnerabilità e conflittualità. La tendenza all’acting, all’opposizione, alla ribellione, alla sperimentazione e al mettersi alla prova attraverso gli eccessi, sono espressioni utili per lo sviluppo dell’autodefinizione. L’azione può aiutare a fronteggiare i conflitti interni ma, nel contempo, il ricorso all’agito può rappresentare una spinta verso la messa in atto di condotte rischiose per sé e per gli altri (abuso di alcol, droghe, guida in stato di ebbrezza, ecc.).

L’adolescente accanto a sentimenti di potenza e talvolta onnipotenza, si scontra con l’impotenza, la confusione e il dover dipendere. La condotta autolesiva può attenuare il conflitto tra il bisogno dell’oggetto e la paura di esperire questa dipendenza. I sentimenti di amore, odio e rabbia esprimono il legame con l’oggetto. Attraverso l’attacco al sé corporeo l’adolescente può preoccupare l’oggetto e attraverso tale preoccupazione può controllarlo e tenerlo legato a sé.

Il corpo diventa quindi un luogo di espressione della sofferenza psichica e lo strumento per comunicare i propri bisogni e conflitti evolutivi.

Le condotte agite verso il proprio corpo annullano il senso di torpore e, più in generale, la sofferenza psichica divenendo un meccanismo di gestione della tensione, della disforia, dell’ansia e delle situazioni stressanti.

In una prospettiva psicoanalitica si tratta di manifestazioni di un conflitto relazionale nel quale una parte del Sé attacca e danneggia un’altra. Il comportamento autolesivo è messo in atto per dislocare un conflitto dal regno della mente al corpo, spesso con l’intento di ottenere un qualche sollievo dalla sofferenza provocata dal conflitto emozionale.

Fonagy e Vrouva hanno parlato, nel momento in cui compaiono le condotte autolesive agite sul corpo, di un fallimento della mentalizzazione8, ossia della capacità di “tenere a mente la mente” e “vedere se stessi dall’esterno e gli altri dall’interno”. Le difficoltà emotive vengono vissute, specialmente in adolescenza, con una enfasi sul corpo (somatizzazioni, condotte alimentari, ecc.) indicando una difficoltà ad entrare in contatto con le proprie emozioni a livello sia corporeo che psicologico. Si parla, in generale di un deficit nella competenza emotiva, con difetto nella capacità di comunicare le proprie emozioni, tipo alessitimia: si tratta di uno stile emotivo cognitivo caratterizzato da difficoltà nel riconoscere e nel descrivere agli altri le proprie emozioni, povertà d’immaginazione e fantasia e pensiero orientato all’esterno.

Secondo alcuni autori che si sono concentrati sulla relazione tra abuso/maltrattamento infantile e condotte autolesive, le NSSI diventano una modalità di autopunizione. Nei soggetti che hanno avuto esperienza di maltrattamento e abuso il comportamento autolesivo di tipo punitivo diventa una modalità di agire un giudizio su se stessi duro e svalutante, come se il bambino “meritasse” la violenza di cui viene fatto oggetto, e spingerebbero l’adulto a perpetrare la violenza su se stesso.

Secondo alcuni lavori l’autolesionismo diventa una forma di “cura di sé” che mette al riparo dal rischio di agiti più pericolosi o anche fatali. Si tratta quindi di una strategia di coping, soluzione disperata in momenti emozionalmente insostenibili per esprimere esternamente la tensione e il dolore e guadagnare quindi uno stato di temporanea serenità.

Contagiosità

Un aspetto peculiare delle condotte autolesive è sicuramente l’aspetto di “contagiosità del sintomo”, aspetto rimarcato nella definizione stessa del DSM 5: “gli individui apprendono il comportamento spesso attraverso il suggerimento o l’osservazione di qualcun altro. La ricerca ha dimostrato che quando un individuo che mette in atto comportamenti di autolesività non suicidaria è ricoverato, altri individui possono cominciare a mettere in atto lo stesso comportamento”.




Questo tipo di contagio può avvenire nel contesto di vita sociale dell’individuo (ad esempio, la scuola, la classe) ma anche in rete: i termini legati all’autolesività sono visionati circa 42 milioni di volte all’anno su Google, i principali video su YouTube con un contenuto relativo a questo argomento hanno circa 2 milioni di visualizzazioni. L’attività online relativa alle condotte autolesive può presentare aspetti positivi (ridurre l’isolamento sociale, cercare incoraggiamento e sostegno per una riduzione degli agiti, alleviare il desiderio impulsivo di ferirsi) ma anche potenzialmente dannosi (rinforzo sociale, sostegno all’impulsività).

Per quanto riguarda invece il contesto clinico, è noto che il fatto che un paziente passi all’atto in un ambito ospedaliero decuplica la possibilità che gli altri pazienti facciano altrettanto. Le epidemie avvengono più facilmente nelle istituzioni coercitive (reparto psichiatrico chiuso, carcere) ma anche in quelle istituzioni poco contenenti e tutelanti, così come nei contesti dove si attiva in maniera massiccia l’ansia dell’equipe curante. Il contagio avviene preferenzialmente in un piccolo gruppo di pazienti, individualmente predisposti, guidati da un leader, legati tra loro da relazioni privilegiate e disfunzionali, spesso di rivalità. Le lesioni creano un gruppo di svalutazione delle cure e delle istituzioni, in cui gli adolescenti s’incoraggiano mutualmente. I tagli diventano titoli di gloria e sono associati a manifestazioni apparentemente di giubilo che nascondono invece una grande angoscia, l’inadeguatezza dell’equipe curante, la sua impotenza a proteggere e a curare, l’adulto rischia di diventare un soggetto che non protegge.




Terapia

Il trattamento dell’adolescente con NSSI deve essere di tipo multidisciplinare (neuropsichiatrico infantile, psicologico, educativo), continuativo e prolungato nel tempo.

Innanzitutto è necessario effettuare una buona valutazione del contesto famigliare e sociale in cui vive l’adolescente definendo la presenza dei fattori di rischio sia famigliari che individuali.

Qualora sia presente una psicopatologia sottostante, questa deve essere diagnosticata e ben delineata. È necessario indagare con attenzione la presenza di ideazione suicidaria o pregresso tentativo di suicidio, effettuando una valutazione del rischio suicidario: se questo risulta essere elevato, il paziente deve essere messo in una condizione di sicurezza e protezione, ad esempio mediante ricovero ospedaliero.

La presenza di altri fattori di rischio, come ad esempio il pregiudizio di pregresso abuso (maltrattamento, grave incuria, abuso sessuale), deve essere oggetto di particolare attenzione, con l’attivazione tempestiva dei percorsi di tutela del minore e di segnalazione all’autorità giudiziaria.

Il percorso terapeutico deve prevedere la possibilità di stabilire con il ragazzo un’alleanza terapeutica volta a una definizione di obiettivi comuni e al tempo stesso deve prevedere il coinvolgimento degli adulti di riferimento (genitori, insegnanti). La famiglia deve essere coinvolta nel progetto terapeutico, divenendo oggetto di presa in carico specifica da parte dell’equipe curante.




Con il ragazzo è necessario comprendere quali sono i fattori che scatenano le condotte autolesive, definire quali possono essere le strategie di gestione delle emozioni negative alternative all’agito, stabilire una relazione di fiducia in cui insieme si possa collaborare all’obiettivo comune che è la riduzione e la scomparsa delle condotte autolesive: si tratta cioè di sostenere il passaggio, con il ragazzo, dal sentire il sintomo come egosintonico a egodistonico.

La letteratura internazionale ci dice che l’intervento di elezione per questo tipo di problematica è la psicoterapia, non vi sono al momento evidenze che supportino l’utilizzo di terapie psicofarmacologiche.

In acuto, è tuttavia possibile utilizzare terapie sedative qualora il paziente presenti un livello di tensione molto alta, soprattutto in un contesto clinico.

È ovviamente indispensabile trattare, se presente, la psicopatologia sottostante (sintomatologia depressiva, ansiosa, disforia) anche da un punto di vista psicofarmacologico qualora sia necessario mediante l’utilizzo di terapia antidepressiva, stabilizzante l’umore, sedativa, ecc.

Gestione del paziente in acuto

Il pronto soccorso o l’ambulatorio del pediatra di libera scelta diventano, alla luce di quanto detto fin’ora, un ambiente privilegiato per intercettare gli adolescenti che mettono in atto condotte autolesive e che quindi sono ad alto rischio di outcome negativi e di effettuare tentativo di suicidio. Nella tabella 3 sono indicati alcuni consigli pratici per la gestione del paziente in pronto soccorso e nella tabella 4 alcuni atteggiamenti inopportuni e da evitare.

La ferita che ci si autoinfligge

non è dunque sofferenza

ma opposizione alla sofferenza:

è un compromesso,

un tentativo di riportare in vita

un senso che si è perduto.

David Le Breton1

L’autrice dichiara di non avere
alcun conflitto di interesse.

Bibliografia

1. Le Breton D. La pelle e la traccia. Le ferite del sé. Tr. it. Roma: Meltemi, 2005.

2. Mercado MC, Holland K, Leemis RW, Stone DM, Wang J. Trends in emergency department visits for nonfatal self-inflicted injuries among youth aged 10 to 24 years in the United States, 2001-2015. JAMA 2017;318:1931-3.

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