La morte del bambino e la gestione del lutto: problemi sommersi che mettono in crisi

Quando si pone una diagnosi di inguaribilità ha inizio un percorso molto difficile e delicato
che è unico per ogni bambino e la sua famiglia.

“Spesso si dice che

quando un genitore muore

si perde il passato,

mentre quando muore un figlio

si perde il futuro”.

(Walsh 2008)

Valentina De Tommasi1,

Monica Minetto2

1 Cure Palliative e Terapia Antalgica
Pediatrica, Hospice Pediatrico,
A.O. di Padova, Padova

2 Reparto di Oncologia Pediatrica
dell’Azienda Ospedaliera
“Santa Maria degli Angeli”, Pordenone




Introduzione

In Italia circa 11.000 bambini con malattia inguaribile e/o terminale (1/3 oncologica-2/3 non oncologica) hanno necessità di cure palliative pediatriche. La loro condizione fa sì che abbiano bisogno di essere seguiti da una rete d’assistenza specialistica e multidisciplinare che comprende un team di cure palliative pediatriche di terzo livello, i servizi territoriali e quelli ospedalieri più vicini al luogo di vita del minore. Tale rete d’assistenza è completa se al suo interno è previsto il coinvolgimento del pediatra di libera scelta, che conosce il bambino e la sua famiglia dalla nascita.

Il pediatra di libera scelta, o anche pediatra di famiglia, “è il medico di fiducia preposto alla tutela dell’infanzia, dell’età evolutiva e dell’adolescenza” e questo ci spiega come tale professionista sia colui che meglio conosce il bambino e la sua famiglia all’interno del sistema sociale e relazionale a cui appartengono. Ciò permette alla famiglia di vivere questa figura assistenziale come primo alleato, permettendo ai suoi componenti di sentirsi insieme e non soli di fronte ad un’esperienza così devastante come il percorso di accompagnamento alla terminalità del proprio figlio.




In tutti i programmi di sviluppo delle cure palliative pediatriche viene sottolineato come il diritto ad un’assistenza specialistica non debba essere limitato per nessuna ragione a nessun bambino con malattia inguaribile e/o terminale e alla sua famiglia. La rete assistenziale che si viene a creare deve garantire le risposte ai principali bisogni di salute fisica, psicologica e spirituale di tutti (bambino, famiglia e operatori). In tutto il percorso di cura deve costantemente essere salvaguardato il coinvolgimento della famiglia e del piccolo, quando possibile, in tutti i suoi processi decisionali.

In letteratura diversi autori come Murray Bowen e Norman Paul affermano che “…il dolore, quando non riconosciuto e non curato, può causare reazioni intense e dannose in altri contesti relazionali: distanziamento o dissoluzione del legame coniugale, sostituzioni precipitose, relazioni extraconiugali e perfino abusi sessuali”.

Inguaribilità, terminalità, lutto

Vi è una “riverberazione” significativa di emozioni all’interno dei vari sistemi familiari che sono colpiti dalla morte di un bambino. Il profondo dolore, l’ingiustizia percepita e la forza dei profondi legami all’interno del sistema familiare creeranno sintomi emotivi, comportamentali, relazionali o somatici, che potranno essere intesi come canali d’espressione e di comunicazione con l’esterno.

Trattare temi come morte, dolore e sofferenza, specialmente se in ambito pediatrico, pone i clinici in una posizione di vulnerabilità. Per lavorare con queste famiglie è necessario costruire dei legami terapeutici rispettosi della sofferenza di chi abbiamo di fronte.

La responsabilità dei clinici è anche quella di mantenere viva la riflessione su quale possa essere la comprensibilità, gestibilità e significatività per chi convive con la malattia e che infine si avvicinerà alla terminalità.

La più difficile da affrontare per il personale sanitario e anche per la famiglia stessa è sicuramente la comunicazione con il paziente, soprattutto se si è in ambito pediatrico.

Per un bambino è importante conoscere gli aspetti della propria malattia e conoscere la verità, qualora egli la voglia conoscere. In questo modo si può aiutare il piccolo paziente ad evitare ansie e angosce, fantasie e pensieri che possono risultare addirittura peggiori della malattia stessa.

Dalla prima parola di diagnosi d’inguaribilità comincia quello che gli esperti in emozioni e relazioni chiamano “lavoro del lutto”. S’inizia a designare in quel momento il percorso del lutto e il percorso che l’intera famiglia farà assieme al piccolo malato. I clinici avranno il compito di accompagnare con onestà e senza togliere la speranza tutti i protagonisti dell’esperienza lungo il percorso che viene strutturato dall’inguaribilità e che è unico per ogni bambino e la sua famiglia. Tale percorso porta con sé una serie di condizioni difficili da gestire ma soprattutto genera una conseguenza disarmante: la morte di un figlio, che può essere anche un fratello o un nipote.

L’importanza della comunicazione

e condivisione

In questo percorso diventa importante accompagnare la famiglia e non far sentir solo nessuno dei suoi membri. Questo diventa possibile solo se il flusso delle informazioni tra i clinici e la famiglia è fondato su una sincera e fiduciosa alleanza che si alimenta di “comunicazione viva”.

Importante è che sia noto che i molteplici protagonisti (bambino, famiglia e operatori tutti) non siano e non si sentano soli. E proprio per questo diviene indispensabile il confronto e la condivisione costanti: è necessario tenere sempre viva la comunicazione tra tutti i soggetti dell’esperienza. Tenere viva la comunicazione tra tutti i protagonisti del percorso di cura è una metodologia operativa garante di un lavoro che mira a dare qualità e benessere al bambino, alla sua famiglia e a tutti gli operatori coinvolti.

Diventa chiaro come, quando questa metodologia è fragile, i piccoli pazienti possano soffrire per angosce e solitudine causate da segreti familiari, per l’appunto, per un’assenza di comunicazione.

I bambini ci stupiscono e ci insegnano che l’esclusione da processi di malattia, processi di lutto o anche da riti funebri provocano confusione, mancata protezione e vissuti di abbandono. I bambini, in un ruolo altamente disfunzionale, possono arrivare a proteggere gli adulti.

Per quanto riguarda i fratellini che subiscono il lutto è importante valutare lo stato di sviluppo cognitivo ed emotivo e poiché l’elaborazione del lutto è molto individualizzata, è meglio pensare non a stadi rigidi sequenziali come shock, rifiuto, negazione, rabbia, ira, contrattazione, stati depressivi, arresa, disinvestimento, graduale accettazione, resilienza, bensì a sfumature di dolore (Walsh 2008).

Molto più spesso di quanto si pensi, il dolore dei bambini per la perdita di un fratellino viene nascosto dietro una maschera giocosa e quieta per non preoccupare i genitori già fortemente provati.

Gli altri membri adulti della famiglia possono tentare di sfuggire al dolore attraverso forme di dissociazione, attraverso il lavoro, nuove relazioni, consumo di alcol e droghe. Di fronte alla morte di un figlio un genitore può tentare disperatamente di inibire il dolore causando così rotture importanti nella coppia coniugale e genitoriale, e nella cura di figli ancora in vita.




È necessario che chi compone la rete assistenziale attorno alla famiglia che sopravviverà non si limiti ad occuparsi solo dell’“emergenza”, dell’evento critico, ma anche di tutte le reazioni familiari in prossimità della morte: nel periodo di malattia e di lutto.

Uno dei compiti dei clinici è quello di essere promotori di un’educazione alla comunicazione. La ricerca dimostra che la comunicazione aperta senza segreti e sotterfugi aiuta notevolmente l’adattamento della famiglia e la visione in essa di una rete di supporto per i componenti, grandi e piccini.

I clinici vicini al bambino morente devono considerare anche la fisiologica difficoltà personale a entrare in contatto con il dolore della morte e l’eventualità che possa inibire un’adeguata esplorazione di tutti i problemi che possono sorgere nella famiglia che ha subito il lutto. Possono considerare il bisogno di essere sostenuti a loro volta e di essere formati nel difficile compito di accompagnare bambino e famiglia in queste fasi delicate e impegnative.

Nel periodo della terminalità è importante permettere il contatto diretto tra il piccolo paziente e i membri della sua famiglia, coinvolgendo appena possibile i fratelli e tutti i membri vulnerabili. Purtroppo, ancora spesso, capita, seppure nelle migliori intenzioni, che i genitori e i clinici presenti isolino il bambino, sia nel caso sia il morente che il sopravvissuto; in una sorta di tentativo di difesa si causa un possibile aumento di angoscia, solitudine e limitazioni nel processo del lutto.




Alle famiglie che incontriamo in questa dura fase della loro esistenza, in cui il dolore è devastazione, è necessario dare loro delle precisazioni: il dolore in tutte le sue manifestazioni può diventare curativo; il lutto, l’elaborazione di un’esperienza così traumatica, non può essere un risultato ma deve essere inteso come processo, diverso per ognuno, soprattutto differente tra genitori e fratelli del piccolo defunto.

Spesso accade che con la massima attenzione alla protezione reciproca i genitori non sappiano cosa dire e cosa fare, scegliendo di non dire nulla ed evitando così qualsiasi comunicazione. In un circuito di omertà familiare l’ansia cresce e “l’indicibile passa nell’implicito per poi emergere in superficie” (Walsh 2008).

In seguito alla morte del piccolo Giorgio si sono verificati gravi lutti patologici per i genitori che nel timore di “far sapere agli altri” si sono completamente isolati, azzerando risorse familiari presenti nelle famiglie d’origine. Probabilmente una buona comunicazione iniziale con i clinici sull’importanza del coinvolgimento attivo del bambino avrebbe permesso al piccolo paziente di non restare in un isolamento angosciante e gli avrebbe invece permesso di manifestare paure, così come speranze e desideri.

Silvia Soccorsi nelle sue ricerche (1977–1984) poneva l’accento sulla difficoltà di mantenere un giusto equilibrio tra la negazione protettiva del bambino malato da parte degli adulti di riferimento e la forza opposta dell’accentramento della malattia come nucleo dell’universo familiare.

Giorgio con una malattia fortemente invalidante e mortale si poneva in una posizione di assoluto potere all’interno della sua famiglia, troneggiando sui fratelli e sui genitori.

Come è possibile intervenire all’interno del piano relazionale di queste famiglie?

Il clinico non deve essere giudicante e, con un atteggiamento benevolo, può indirizzare la famiglia verso un aiuto specializzato; spesso ciò che queste famiglie esprimono è la difficoltà di comunicare il dolore a chi non ha vissuto la stessa esperienza.

Aiutare le famiglie a gestire l’esperienza di accompagnamento alla morte del proprio figlio e le emozioni che intervengono durante e dopo l’evento è compito dei clinici che si inseriscono a diverso titolo nel percorso sanitario. Nello specifico il compito dei clinici è garantire che il minore e la sua famiglia vivano in un clima comunicativo e relazionale adeguato e agevolare il raggiungimento di una buona qualità di vita.

Considerazioni conclusive

Alla luce delle riflessioni fatte, diviene importante presentare una serie di raccomandazioni utili nella pratica clinica dei professionisti che lavorano all’interno dell’assistenza di un bambino in fase terminale di malattia e della sua famiglia. Tali raccomandazioni vogliono essere dei suggerimenti, non esistono linee guida assolute nella presa in carico di un bambino in fase di terminalità.

Ogni famiglia, accompagnata dal proprio team clinico, deve trovare soluzioni personali a ogni situazione critica basate sulle proprie risorse e tradizioni culturali e spirituali, sulla religione, la filosofia e i valori.

I pediatri di base diventano comprensibilmente i clinici più importanti per la famiglia perché, se il rapporto sanitario non si è mai interrotto, sono i professionisti che da più tempo conoscono il bambino, la sua famiglia e il contesto sociale e relazionale in cui vivono.




Aiutare la famiglia a comprendere l’intento e il risultato di ogni decisione, nei termini di potenziale beneficio e danno, è un modo attivo in cui il team sanitario può dare alla famiglia un contatto profondo e duraturo in uno dei momenti più intimi e difficili della vita. Tale possibilità permette ai familiari di sentirsi attivi in una condizione d’impotenza straziante.

Il pediatra e il personale sanitario, se adeguatamente formati, possono lavorare ed essere pronti ad accogliere un evento come la morte di un bambino permettendo così all’intera famiglia e all’equipe stessa di non sentirsi soli di fronte ad un evento incomprensibile per il naturale decorso della vita

“La morte non è grave.
È triste, ma non è grave.”

Gaspard,

fratello di una bambina morta.

Gli autori dichiarano di non avere

nessun conflitto di interesse.

Bibliografia

Andolfi M. La felicità nel bambino. In Perché siamo felici. Crepet A (a cura di). Torino: Einaudi, 2010.

Andolfi M, Falcucci M, Mascellani A, Santona A, Sciamplicotti F (a cura di). Il bambino come risorsa nella terapia familiare. Roma: Accademia di Psicoterapia della Famiglia, 2007.

Bowen M. Dalla famiglia all’individuo. La differenza del sé nel sistema familiare. Milano: Astrolabio, 1979.

Guarino A. Psiconcologia dell’età evolutiva. La psicologia nelle cure dei bambini malati di cancro. Trento: Erickson, 2006.

Julliand AD. Due piccoli passi sulla sabbia bagnata. Milano: Bompiani, 2012.

Minuchin S. Famiglie e terapia della famiglia, Roma: Astrolabio, 1976.

Malagoli Togliatti M, Lubrano Lavadera A. Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia. Bologna: Il Mulino, 2002.

Scarponi D (a cura di). Cure palliative pediatriche: aspetti psicosociali. Bologna: ASMEPA Edizioni, 2014.

Soccorsi S. La famiglia come risorsa nel trattamento del bambino oncologico. A Multidisciplinary Journal of Family Study Research and Treatment, 1977.

Sourkes BM. Il tempo tra le braccia. L’esperienza psicologica del bambino affetto da tumore. Milano: Raffaello Cortina Editore, 1999.

Walsh F. La resilienza familiare. Milano: Raffaello Cortina, 2008.

www.salastampa.salute.gov.it/portale/salute/p1_5.jsp?lingua=italiano&id=58&area=Servizi_al_cittadino_e_al_paziente